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Diritto all’oblio e internet: come diventare invisibili nell’era digitale

 

“Right to be forgotten”.

Pronti, partenza, via: Sent. Cass. Civ. Sez. III, 9 aprile 1998, n° 3697.

Parte da qui l’allora “nuovo profilo del diritto di riservatezza – recentemente definito anche come diritto all’oblio – inteso come giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata”.

La domanda sorge spontanea: social network, motori di ricerca, riviste e quotidiani on line: oggi, come si arresta l’onda della notizia che si propaga nell’etere?

Pit stop: Sent. Cass. Civ. 05/04/2012, n° 5525.

La pronuncia – innovativa – dei Giudici della Suprema Corte ha riconosciuto varie possibilità a seconda delle circostanze concrete. Il titolare del contenuto pubblicato può rimuovere l’URL, eliminare gli strumenti di indicizzazione della notizia, rimuovere il nome della persona menzionata. In caso di inadempimento si potrà procedere con ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
Tutto ciò potrebbe essere certamente utile, ma non tempestivo: gli ultimi fatti di cronaca purtroppo lo confermano.

Internet è più veloce di qualsiasi Giudice, di qualsiasi attività che intervenga ex post. In tale ottica è stata valuta la Sentenza della Corte di Giustizia Europea, pronunciata nella causa C-131/12, meglio conosciuta come Google Spain.

Con tale pronuncia si è affermato che ai sensi dell’art. 2 lettera b) e d) Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995, l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su internet, di indicizzarle in modo automatico, di memorizzarle temporaneamente e, infine nel metterle a disposizione degli utenti di internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere considerata un “trattamento di dati personali”, qualora tali informazioni contengano dati personali, e che il gestore del motore di ricerca deve essere considerato il “responsabile” del loro trattamento ai sensi dell’art. 2 lettera d), di cui sopra.

Pertanto graverà su tale gestore l’obbligo di eliminare contenuti se non più giustificati da finalità attuali di cronaca. Le critiche si fondano sul fatto che i Giudici europei subordinano la rimozione dei contenuti ad una preventiva disposizione di un’autorità giudiziaria o amministrativa di controllo che nel caso di specie era l’Agencia Espanola de Protecciòn de Datos.
Ecco allora il tanto atteso cambio di marcia. I Giudici del Tribunale di Napoli Nord, pronunciatosi pochi giorni fa sul caso Cantone, hanno emesso un’ordinanza che sancisce l’obbligo in capo a Facebook di rimuovere i contenuti riconosciuti come illeciti, a prescindere da un preciso ordine dell’autorità amministrativa o giudiziaria.
Un successo a metà. I magistrati, infatti, accolgono anche le ragioni del social network, affermando che non esiste alcun obbligo per l’hosting provider di controllare preventivamente tutti i contenuti caricati sulle varie pagine.

Possiamo dunque dire di essere arrivati al traguardo?

Ancora no, troppo lontano. Risulta ancora troppo in tumulto l’oceano della rete.

E allora? Giusto e doveroso capire le responsabilità, chiedere tutela alle autorità competenti, ma è fondamentale investire nell’educazione digitale.

“Per i nostri figli è decisivo conoscere l’inglese, ma è altrettanto fondamentale capire le insidie della nuova società digitale”.

Appaiono come il sereno dopo la tempesta le citate parole del Presidente del Garante per la Protezione dei dati personali. La repressione, da sola, non può risolvere il problema, c’è bisogno di educazione.